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SILENTE COME I MIEI PENSIERI – FOTOGRAFIE DI ALESSANDRO ARNABOLDI

 

Se avessi scritto questo articolo, o comunque cosa mi ha portato a realizzare questa ricetta qualche giorno fa sarebbe stato completamente diverso. Un fiume in piena, quello che mi ha travolta sabato scorso, avrebbe inondato tra le pagine virtuali con tutto il suo impeto. Ed invece, come dopo un acquazzone estivo, sembra tutto così tranquillo e sereno. Così ho pensato di raccontarvi il piatto e la sua nascita; per chi c’era, per chi non è potuto esserci, per chi se lo è perso, per chi è curioso, per chi vuole sapere cosa ho realizzato, per chi lo vuole copiare e soprattutto per me.

Lo scorso fine settimana si è svolta la seconda edizione di Fruttamami, alimenta l’amore per la vita. Una manifestazione voluta fortemente da Rossella De Focatiis, che mi ha coinvolta da subito.

L’anno scorso avevo partecipato con Ferdinando A. Giannone in una delle nostre prime uscite pubbliche insieme. La prima forse, dalla nascita di Effemme di cui vado così tanto fiera. Avevamo ideato due piatti spettacolari che amo tantissimo. “prima e vera” e “tutto l’amore che ho” giocando sulla stagionalità, i colori e cotture diverse.

Quest’anno, anche dopo “la salute nel piatto” dove avevo portato il mio “in viaggio” ero perplessa su quale piatto presentare. Chiedendo ad Alessandro, serafico mi aveva risposto che realizzando tre piatti nuovi a settimana avrei potuto tranquillamente attingere da una delle ricette che avevo già fatto, senza preoccuparmi di presentare qualcosa di nuovo. Infondo, tantissimi presentano un piatto e lo ripropongono, o meglio lo rifilano dal mio punto di vista, a qualsiasi occasione si ripresenti.

Ma io non ce la faccio. Un po’ un “Paganini” della cucina. Un vulcano sempre in fermento che non riesce a riproporre cose già fatte ma che ha bisogno di lasciar scatenare la creatività in cucina.

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silente, come i miei pensieri

Era da un po’, poi, che nella mente avevo questo pensiero fisso di “Silente”, combattuta tra dargli definitivamente vita e renderlo pubblico o continuare a coccolarlo e difenderlo dal pubblico, come un bene prezioso e raro.

Nonostante cercassi un’idea nuova e un piatto da presentare, “Silente” tornava puntuale nei miei pensieri e bussava prepotentemente per uscire. Non ero certa che fosse l’occasione e il luogo adatto, sono rimasta a lungo a pensare se spiegare come era nato o dare una spiegazione più semplicistica.

Inizialmente avevo pensato anche di fare un piatto a base di tempeh. Il mio tempeh è oramai famoso, l’ho insegnato e condiviso a destra e a manca, quello di piselli ha fatto scuola così come gli ultimi nati di arachidi e ceci che hanno raggiunto persino il Friuli. Niente, nulla mi convinceva davvero.

Così alla fine ho deciso di portare “Silente, come i miei pensieri” ed una volta salita sul palco. Esattamente come un fiume in piena ho raccontato come è nata l’idea di questo piatto. Un medley di amuse bouche, alcuni dei quali in questi ultimi due anni ho servito ai miei ospiti, nelle cene private, ai corsi di cucina e alle cene organizzate in Taverna.

L’amuse bouche è letteralmente un “diverti bocca”. Nei ristoranti più rinomati è un piccolo entrée offerto dallo Chef prima degli antipasti e della degustazione vera e propria della cena.

A me piace coccolare gli ospiti al loro arrivo, o fare una sorpresa aldilà del menù concordato, con qualcosa che possa chiudere un buchetto durante il corso, o che possa anticipare quello che arriverà dopo. Un antipasto all’antipasto.

E alcuni, li ho riuniti in questo piatto perché potessero raccontare una storia, la mia storia.

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Tantissimi anni fa, quasi dieci oramai, quando la Taverna non esisteva e non mi passava neanche dall’anticamera del cervello che un giorno, qualche anno più tardi sarebbe arrivato tutto questo, mi ritrovai come quasi ogni fine settimana a cena con gli amici.

La cucina era la mia grande passione e i dedicavo buona parte del mio tempo libero. Studiavo, provavo e cucinavo ma pensavo fermamente che non potessi far parte di quel mondo che tanto mi affascinava, convinta che la mia strada fosse destinata alla carriera intrapresa nelle risorse umane. La cucina non me la potevo permettere, per svariati, innumerevoli motivi, tra cui anche pregiudizi e una severità morale.

In una di questa serata in cui mi ero dilettata a proporre uno dei miei esperimenti, la mia amica Viviana mi aveva incalzato con una proposta bizzarra. Lei era solita spronarmi a fare qualcosa nell’ambito della cucina, e mi proponeva di sovente idee dall’ aprire un ristorante, scrivere un libro ed infine insistere affinché aprissi un blog. Era stata a visitare una mostra d’arte e mi disse “Sai cosa dovresti fare? Dovresti inventare un piatto che sembri un quadro, che si possa mangiare con le dita. Uno di quei piatti fatto di salse e cose simili che strisci e che forma a sua volta un disegno”.

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salsa teriaky senza zucchero alla liquerizia

Di piatti simili nel corso del tempo ne ho visti, memore di queste parole. Nonostante avessi glissato quest’idea mi era rimasta ben impressa. Al momento pensavo che non avrei mai avuto occasione, e soprattutto non avrebbe avuto senso se non per gioco, di ideare una cosa simile ma la curiosità aveva innescato in me un piccolo seme che per tutti questi anni è rimasto latente.

L’anno scorso sono capitate una serie di coincidenze tali per cui ho subito una grave depressione.

Ebbene si. Mi dicono sempre tutti che son sempre sorridente e felice ma la verità è che anche io sono crollata, in tutta la mia fragilità. Se all’apparenza potevo mitigare, dentro provavo dolore e chi mi conosce bene lo riconosceva anche dai sorrisi tirati dietro ai quali mi nascondevo.

Di solito le persone non parlano di queste cose. Dobbiamo farci vedere sempre invincibili, forti, fortunati, impegnati, felici e gioiosi. La verità è che le persone sempre felici mentono. Non siamo invincibili, ed io non sono da meno. Forse sapere questo mi renderà più umana e spero che farà riflettere chi pensa che ci siano persone che non vengono mai toccate.

Si può entrare in depressione per svariati motivi, più o meno gravi. La gravità è soggettiva e non è misurabile così come non è giudicabile. Può capitare per una malattia, a seguito di un lutto, o di una forte delusione, per mobbing o per stress. Non importa, a un certo punto entri in una tempesta e vedi tutto nero, sotto lo scrosciare dell’uragano e non riesci più ad essere oggettivo e a vederne l’uscita, la fine.

Per chi, come me, è un animo tendenzialmente ottimista e con la gioia di vivere, questa tempesta è ancora più drammatica e faticosa, lottando tra trovare un po’ di serenità e allo stesso tempo arrabbiandosi con se stessi per non essere in grado di trovare quel punto di vista che sembra completamente perso. Il bicchiere mezzo pieno che era così facile scovare e a cui aggrapparsi per superare le avversità.

Quando ci si trova nella tempesta capita una cosa strana. E sono, ancora una volta, le persone e le relazioni.

fruttamami

Quando sei nella tempesta c’è chi si accorge del tuo disagio ma se ne frega e non perde occasione per continuare a renderti la vita difficile, magari inconsapevolmente o in buona fede, ma si insinua procurandoti ulteriore dolore.

Poi ci sono quelli che intuiscono la tua difficoltà e la sfruttano a loro vantaggio. Sono gli opportunisti e un po’ ipocriti, che si fingono preoccupati o dimostrano interesse solo per capire come manovrarti e poi, alla prima occasione, fotterti. Fotterti il posto sul lavoro, fotterti un’idea, fotterti un qualsiasi cosa che possa giocare a loro vantaggio e che, se tu non fossi stato nella tempesta non sarebbero riusciti ad estorcerti o estrometterti.

E poi ci sono quelli che spariscono. Per noia, per incapacità relazionale, per paura, per disinteresse, perché infondo di te non gliene fregava più di tanto e la superficialità del loro rapporto viene al pettine.

Mentre sei nella tempesta ti rendi conto che le persone “importanti” non sono importanti affatto, ma eri tu a dargli importanza e a quel punto le vedi in una nuova luce, per quello che davvero sono. Persone come le altre. Quando ero piccola mio papà mi diceva “ricordati, che tutti fanno la pipì allo stesso modo”. Siamo tutti uguali, non c’è nessuno che merita di stare su un piedistallo piuù di altri.

Ma per fortuna ci sono anche persone positive. Persone che non avresti mai detto, o con le quali non avevi un legame forte o intimo, che ti stanno vicino. Che empaticamente cercano di aiutarti o semplicemente sono solidali e disponibili. Che fanno sentire la loro presenza e si legano a te in maniera rinnovata. Poi ci sono quelli che conosci proprio mentre sei nel pieno della tempesta, Che forse colgono la tua parte più brutta e vulnerabile eppure gli piaci lo stesso. Quelli che nonostante tutto ti stanno vicino. Ci sono gli amici di sempre, gli amici veri. Quelli che magari si fanno chilometri per passare le feste con te e dimostrarti che non sei sola, quelli che stanno al telefono finché non si assicurano che la crisi è passata o ti porgono la spalla su cui piangere.
Ci sono quelli che ti indicano la strada da percorrere, che ti indirizzano, ti prendono per mano e ti dicono “vieni di qui, ci sono io, non temere”; ci sono quelli che ti sgridano e che ti destabilizzano. Sono quelli che ti mandano in confusione, quelli che allontani e che cerchi di evitare perché proprio non hai voglia di essere cazziato.

E poi ci sono quelli che non ti suggeriscono nulla, non ti dicono cosa fare o non fare, non passano le giornate a cazziarti. Sono quelli che si siedono di fianco a te e ti dicono “ok, sei nella tempesta. Lo capisco. Io so che la tempesta prima o poi finirà e tornerà il sereno anche se non ci credi, allora stiamo qui sotto la pioggia finché non te ne rendi da conto da sola”. E restano al tuo fianco, come la mia amica Nicoletta. A un certo punto ha smesso di cazziarmi, di darmi suggerimenti per tornare a vedere il bicchiere mezzo pieno ma si è seduta sotto la piaggia. In uno di quei pomeriggi le ho confidato che avrei tanto desiderato il pensatoio di Albus Silente. Adoro Harry Potter, anche se il genere fantasy non è tra i miei generi letterari preferiti. Il preside di Hogwarts aveva questo pozzo in cui poteva gettare i pensieri. Come piccole e delicate nuvole le toglieva dalla testa con la bacchetta e le lasciava scivolare giù.  Ricordi belli e meno belli, pensieri brutti, tristi o meravigliosi. Anziché intasare la memoria e averli sempre a disposizione per tornarci a rimurginarci sopra, li accantonava nel pensatoio.

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Quando un pensiero negativo ci assale siamo noi a dargli spazio e rovinarci la giornata perché continuiamo a pensarci, fino a logorarci. Invece dovremmo riuscire a lasciarli andare. Non pensarci, non dargli peso. Difficile, ma non impossibile.

A quella mia affermazione mi aveva proposto di farne un piatto e lo aveva intitolato “silente, come i miei pensieri”. Se fosse per Nicoletta dovrei fare un piatto per ogni emozione e avvenimento, e per questo pensava che sarebbe stato perfetto. Dare una forma a ogni emozione e pensiero e depositarlo nel piatto.

Tempo dopo, anche Ferdinando mi ha fatto rendere conto che in realtà la cucina per me è il mio pensatoio. Non importa con quale umore arrivi in cucina, cosa mi sia capitato, che sia euforica o distrutta. Nel momento in cui inizio a lavorare con il cibo entro nel mio mondo e come un balsamo tutto il resto svanisce e ci sono solo io e il piatto che sto realizzando. Troppo impegnata in quello che sto facendo, troppo attenta e dedita a cosa e per chi lo sto preparando. Se sono nervosa, triste, preoccupata o qualsiasi altro stato emotivo, tutto svanisce.

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Così come avevo scartato l’ipotesi di creare un quadro da mangiare con le dita, avevo gentilmente glissato anche l’ipotesi di Silente, eppure si era visceralmente avviluppato a me. Non avevo voluto darle corda perché mi immaginavo un piatto tutto nero e triste, come ero io. Eppure la mia curiosità e la mia creatività ne era rimasta solleticata e per la prima volta mi era tornata alla mente l’idea bizzarra del piatto quadro da mangiare con le dita.

A un certo punto ho smesso di parlare di quello che provavo, di quello che mi era capitato e che mi aveva trascinato in quello stato d’animo e ho iniziato a reagire. Ho deciso di dedicarmi alla cucina con amore e gratitudine. E pian piano la pioggia ha smesso e il cielo si è rischiarato fino a far tornare il sole. I toni cupi e tristi che pensavo avrebbero abbondato, grazie ancora una volta alla cucina, hanno lasciato spazio a colori vivaci e accessi che caratterizzano i miei piatti.

Mi sono dedicata alla cucina per prendermi cura delle persone, per creare un luogo dove le persone possano stare bene, dove si sentano coccolate, seguite, permettergli di rilassarsi e rasserenarsi e godere e sentirsi appagati. Ma soprattutto la cucina fa stare bene me ed è stato il nettare che mi ha permesso di uscire dalla tempesta. La cucina mi ha permesso di trovare il mio spazio nel mondo.

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Così come non sappiamo bene come entriamo nella tempesta, da un giorno con l’altro ci rendiamo conto di esserne usciti ma non sappiamo davvero come è successo e quando. Però accade, Accade sempre, se lavoriamo con forza, se ci mettiamo tutta la nostra dedizione e non ci lasciamo sopraffare. Una cosa è certa. La tempesta non viene per nuocere, Sono convinta che nel mio caso la tempesta servisse a lavare e ripulire il mio cammino.

A volte l’universo ci manda dei segnali che noi non vogliamo ascoltare o non cogliamo. Allora si fa più insistente. Nel libero arbitrio ci lascia l’opportunità di scegliere ma se ci opponiamo ci fa scontrare con realtà sempre più grandi fino a quando non ci rendiamo conto seriamente e ascoltiamo il messaggio. E arrivano le tempeste, da cui usciamo con ferite e cicatrici che non potremo scordare ma che ci hanno reso più forti e più lucidi. La pioggia lava via quello che non è necessario nel nostro cammino. Cose, luoghi, persone, situazioni. E quando lo accetti tutto è più chiaro e tutto diventa più sereno. Ci rinnoviamo, rinasciamo.

Dedicarmi alla cucina mi ha permesso di rendermi conto di tutto questo.

Così ho iniziato a costruire il mio “Silente, come i miei pensieri”. Le emozioni, anziché parlarne e cercare di analizzarle e razionalizzarle, le ho semplicemente lasciate fluire e dato vita sotto forma di piatti. Tacitamente, senza raccontarlo a nessuno.

Ho infine capito che era ora di farlo conoscere quando, una sera, al corso di mindful eating le persone hanno iniziato a pulire i piatti con le dita. Il godimento che provano nel gustare le mie preparazioni è tale da sentire l’irrefrenabile desiderio di leccarsi le dita. Cosa che è accaduta altre volte ma di cui non mi ero veramente resa conto. Non avevo più dubbi, Silente era pronto a uscire allo scoperto.

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Tra le varie composizioni è nata così la tristezza, un po’ dolce e un po’ amara, con l’idea di una salsa teriaky rivisitata senza zucchero e aromatizzata alla liquirizia. Scura, intensa e persistente. Un gusto poco invadente ma che riempie il palato poco alla volta, esplodendo in un concerto di sapori. Una salsa che amo proporre con ingredienti arrostiti o affumicati.

Dopo uno degli innumerevoli bagni di gong con Sara è nata la salsa piccante. Durante questo ultimo anno ho imparato a prendermi una serata per me per seguire la meditazione sonora guidata. Sono iperattiva, difficilmente riesco a fermare la testa ma i gong mi permettono di entrare in contatto con una parte profonda di me e che ho imparato ad ascoltare e assecondare. In una di queste sessioni ad un certo punto ho sentito sanguinare un orecchio. Un sacco di sangue, fluido e caldo. Pensavo di perdere tantissimo sangue e mi sono spaventata. Non appena riaccese le luci e terminata la sessione mi sono resa conto che era un’illusione. Sara mi aveva dato una chiave di lettura interessante. Il sangue in realtà erano tutte le parole che avevo ascoltato che non mi servivano più e che stavo lasciando andare. Le ho dato fiducia e le ho creduto. Probabilmente erano le cattiverie che chi amavo così tanto mi aveva riservato, le parole taglienti, dolorose che mi avevano ferito nel profondo ma che non devo per forza trattenere e che potevo lasciar scorrere via.

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salsa di barbabietola piccante

Da quella volta mi è capitato ancora di provare quella sensazione ma l’ho accolta con gioia, come un piacere liberatorio.

Alla fine, ho imparato che la felicità non è data da situazioni esterne. Da luoghi, cose o altro. E’ semplicemente uno stato d’animo, e siamo noi che possiamo decidere di essere felici e non lasciarci influenzare negativamente dagli altri, dai loro atteggiamenti e dalle loro parole.

Il dolore l’ho interpretato con una salsa piccante. Rossa, e piccante. Perché io lo vedo così. E quindi nel mio piatto ho messo una salsa di barbabietola al peperoncino, marcatamente piccante.

Ma sono un’ottimista e un’entusiasta della vita. Da questa situazione ho potuto apprezzare comunque le persone che oggi mi sono a fianco e che stimo. E sono tornati i colori, il giallo dell’allegria e il viola della serenità, che non può mancare perché lo amo e adoro abbinarlo al giallo.

Da qui la salsa di mango fermentata, quella che tante volte sto preparando ai corsi di fermentazione con Ferdinando, e che ogni volta cambio in base alla situazione e all’umore del momento. Una salsa fresca e frizzante, aromatica e sprintosa che ben si abbina con le verdure a crudo.

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salsa di cavolo rosso e mela alle spezie

La salsa cavolo cappuccio rosso e mela, con le spezie. Un infuso dolcemente astringente che ricorda i sentori dei crauti che ti invita con la sua dolcezza ma poi ti sbaraglia con note amare, acide e nella quale si riconoscono le spezie.

A queste salse ho deciso di abbinare una cornucopia di daikon farcita con una salsa ai piselli e guarnita con mitzuna, senape e germogli piccanti. Un’idea da mangiare in un sol boccone, dove la dolcezza dei piselli è esaltata dalla croccante freschezza del ravanello invernale e contrastata dalla piccantezza delle tenere foglie.

Un formaggio fermentato e stagionato di anacardi, servito con delle nuvole di riso croccanti; patè di edamame al finocchietto selvatico e servito con un pesto di aglio orsino, raccolto nei miei boschi valsassinesi che amo tanto. A questo, batata fondente affumicata al rosmarino, avocado fermentato, asparagi scottati, fragola, ravanello e spinacini freschi. Verdure cotte e crude da passare nella salsa preferita e formare il boccone perfetto.

In questo piatto ho unito i colori che mi piacciono, i sapori che amo come l’affumicato, e le mie conoscenze. La fermentazione, il crudismo, i formaggi vegetali, i miei studi sui dolcificanti naturali.

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Un fiume di parole, nuovamente. Un piatto che proprio non riesco a raccontare in due righe e che merita tutta l’attenzione per la sua complessità di pensiero, in tutta la sua semplicità. Un piatto che offro ai miei ospiti e che da oggi è diventato ancora più vero e sentito e che ha preso vita ed il volo verso il futuro.

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Un piatto che ho studiato in ogni minimo dettaglio, fino a ideare il supporto su cui servirlo. Un piatto grezzo che ricordi una tela da pittore e che mi ha realizzato appositamente la designer Maria Antonietta Mancuso, interprentando completametne ilmio pensiero.

Al termine del cooking show tremante ed emozionata, una fila di persone hanno formato un cappello intorno a me. Tutti volevano fotografare il piatto e molti dirmi la loro impressione. Ho ricevuto affetto.

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Scesa dal palco con il mio piatto, con alcuni amici, conoscenti e sconosciuti che si erano fermati vicino a me, ho aspettato di far fare le foto ufficiali e infine mi hanno chiesto di assaggiare il piatto. Pian piano tutti si sono serviti. Mentre tenevo il piatto, dita frenetiche strisciavano sulla superficie disegnando un nuovo piatto. La magia di quello che avevo appena raccontato stava avvenendo. La socialità, di gente che non si conosceva e che mangiava dallo stesso piatto, che attraverso il cibo si scambiava opinioni, sensazioni e emozioni. La convivialità e il piacere donato da sapori inaspettati, da contrasti e armonie. Dal gioco di mangiare con le dita e dalla condivisione.

Nutrire, il privilegio più grande che un cuoco abbia e che sento come una forte responsabilità e onore. L’opportunità di donare piacere e allo stesso tempo seminare consapevolezza e un piccolo seme.

Un piatto che parla di me. Silente, come i miei pensieri

 

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Silente, come i miei pensieri

Amuse bouche vegetale

 

Ingredienti per 4 persone:

 

200 g di fagioli edamame

20 g di finocchietto selvatico

100 g di aglio orsino fresco

Olio extra vergine di oliva, olio di girasole alto oleico

Sale, pepe

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Procedimento:

Scottare i fagioli di edamame in acqua bollente salata per 3 minuti, scolarli e trasferirli in acqua fredda salata. Scolarli ed eliminare le bucce. Scottare per 30 secondi il finocchietto selvatico, trasferirlo in acqua e ghiaccio e poi frullarlo con pari peso di olio evo. Trasferire i fagioli nel boccale del frullatore, unire la crema di finocchietto e emulsionare con una parte di olio evo e una di olio di girasole. Frullare fino a renderlo completamente spumoso e cremoso. Aggiustare di sale e pepe. Trasferirlo in sac a poche.

Nel frattempo frullare le foglie di aglio orsino con abbondante olio evo fino ad ottenere un composto omogeneo e salarlo a piacere.

Servire il patè di edamame condendo con il pesto di aglio orsino e accompagnando con cruditè e verdure di stagione.

Buon appetito!

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Tempi di preparazione:

20 minuti

 

Difficoltà:

facile

 

Completano il piatto:

salsa di barbabietola al sale piccante

salsa teriaky senza zucchero alla liquirizia

salsa di mango fermentato

salsa di cavolo rosso e mela alle spezie

batata fondente affumicata

asparago

carota

ravanello

fragola

puntarella (cicoria spigata)

daikon con crema di piselli e germogli piccanti

formaggio fermentato e stagionato con chips di riso

oriental mix (mitzuna, rucola rossa, bietoline, spinacio novello, lattuga)

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Se vi incuriosisce l’avocado fermentato, potete trovare la ricetta qui. Quello utilizzato in questo piatto è nato dall’evoluzione e dal continuo studio sulle fermentazioni, ma partendo sicuramente da questa ricetta che mi ha ispirato:

 

avocado fermentato

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